Vocalità smagliante, fraseggio autorevole e imponente physique du rôle gli consentono infatti di tratteggiare un'interpretazione soggiogante dello zar: di volta in volta esitante nella scena dell'incoronazione, padre affettuoso agli inizi del secondo atto, quindi ossessionato nel lungo confronto con Šujskij – la scena della pendola è di grande effetto – sino ad un finale allucinato, da brivido. Ma ciò che maggiormente si ammira è il rigore che, come nel caso degli altri interpreti, gli permette di approdare ad una visione squisitamente moderna del ruolo, priva degli eccessi espressionisti tanto di moda in passato: in alcuni passaggi è solo un po' troppo giovane – giovanile, verrebbe da dire – ma maturerà presto verso grandi traguardi.
Il tempo di Boris, la storia di un popolo
Un inestricabile, ramificato, inquietante viluppo umano. Quando si diradano le nebbie, è questa la prima immagine di Boris Godunov, libretto e musica di Modest
Musorgskij, rappresentato al Teatro Massimo di Palermo in questi primi giorni di primavera. È una massa informe, fuori dal tempo perché immersa nella storia di tutti i tempi, quella che, prona e strisciante, attende l'elezione del nuovo zar. E solo l'avvio dell'azione consente una collocazione storico-temporale ben definita: ma il carattere fondamentale dell'opera, sottolineato tanto dal poderoso incipit quanto dalla convulsa conclusione,Benché l'opera preveda una lunga teoria di ruoli – venti quelli espressamente previsti in locandina – è il protagonista ad assicurare la riuscita dello spettacolo. A Palermo si è fatto affidamento su una doppia distribuzione, che alternava a Ferruccio Furlanetto, acclamato interprete dello zar, un non meno entusiasmante Alexei Tanovitskij, un giovanissimo basso bielorusso, appena trentenne, ma con tutti i titoli per diventare un grandissimo Boris. Vocalità smagliante, fraseggio autorevole e imponente physique du rôle gli consentono infatti di tratteggiare un'interpretazione soggiogante dello zar: di volta in volta esitante nella scena dell'incoronazione, padre affettuoso agli inizi del secondo atto, quindi ossessionato nel lungo confronto con Šujskij – la scena della pendola è di grande effetto – sino ad un finale allucinato, da brivido. Ma ciò che maggiormente si ammira è il rigore che, come nel caso degli altri interpreti, gli permette di approdare ad una visione squisitamente moderna del ruolo, priva degli eccessi espressionisti tanto di moda in passato: in alcuni passaggi è solo un po' troppo giovane – giovanile, verrebbe da dire – ma maturerà presto verso grandi traguardi. sta proprio nel tratteggiare un potente ed evocativo affresco corale. Il personaggio dello jurodivyj, l'Innocente, il Folle in Cristo, chiamato a siglare l'opera con il suo lamento sulle sorti della Russia, diventa così la chiave per interpretare il soffio epico che accomuna dramma privati e tragedie collettive, l'oscura, contrastata ascesa al trono dello zar Boris come le sofferenze di un popolo, vittima di un'interminabile catena di complotti e di intrighi.
Tormentato nella genesi come nella ricezione, Boris Godunov è opera di ardua esecuzione, a cominciare dalla scelta della versione da eseguire. Palermo vanta una discreta frequentazione con questa partitura: nel corso del secolo scorso, cinque edizioni ne hanno punteggiato la storia, con punte di eccellenza nel 1954 e nel 1964, sul podio Tullio Serafin e Antonino Votto, protagonisti d'eccezione Nicola Rossi Lemeni (forse il più significativo Boris italiano del secolo) e Jerome Hines. Solo l'ultima edizione, presentata nel 1987 al Politeama Garibaldi dai complessi del Teatro Maly di San Pietroburgo con l'autorevole presenza, nel ruolo del titolo, di Vladimir Vaneev, ha segnato il ritorno alla versione originale in lingua russa. L'edizione 2012 opportunamente opta per la versione definitiva del 1872 – la seconda approntata dal compositore, tenuta a battesimo al Mariinskij di San Pietroburgo nel febbraio del 1874 – nell'edizione curata da Pavel Lamm, la più fedele al dettato dell'autore. E l'esito si rivela subito catturante, proprio perché le grandi scene corali, esaltate in questa versione, permettono di ricomporre il travagliato, frammentario mosaico che, tra Mosca e i confini con la Polonia , raccontano alcune pagine della storia russa. La scelta di questa versione si deve alla giovane, ispirata bacchetta di George Pehlivanian, un direttore libanese di origini armene, naturalizzato americano. È una direzione, la sua, che riesce ad equilibrare le arditezze del linguaggio musicale musorgskijano – su tutte un declamato scolpito sulla prosodia russa – con gli struggenti abbandoni di affondi melodici ora nostalgici – il grande monologo di Boris del secondo atto – ora visionari – il duetto 'd'amore' che suggella il terzo atto – per dar conto di una varietà di scrittura che sorprende ad ogni pagina. E se la compagnia di canto ha egregiamente supportato questa vibrante interpretazione dell'opera, non altrettanto può dirsi della compagine corale – quella del Teatro Massimo, integrata con alcuni elementi del Coro Radiofonico di Cracovia, tutti sotto la direzione di Andrea Faidutti – forse in difficoltà con la lingua, comunque poco omogenea ed esitante nell'assecondare le esigenze della partitura.
Benché l'opera preveda una lunga teoria di ruoli – venti quelli espressamente previsti in locandina – è il protagonista ad assicurare la riuscita dello spettacolo. A Palermo si è fatto affidamento su una doppia distribuzione, che alternava a Ferruccio Furlanetto, acclamato interprete dello zar, un non meno entusiasmante Alexei Tanovitskij, un giovanissimo basso bielorusso, appena trentenne, ma con tutti i titoli per diventare un grandissimo Boris. Vocalità smagliante, fraseggio autorevole e imponente physique du rôle gli consentono infatti di tratteggiare un'interpretazione soggiogante dello zar: di volta in volta esitante nella scena dell'incoronazione, padre affettuoso agli inizi del secondo atto, quindi ossessionato nel lungo confronto con Šujskij – la scena della pendola è di grande effetto – sino ad un finale allucinato, da brivido. Ma ciò che maggiormente si ammira è il rigore che, come nel caso degli altri interpreti, gli permette di approdare ad una visione squisitamente moderna del ruolo, priva degli eccessi espressionisti tanto di moda in passato: in alcuni passaggi è solo un po' troppo giovane – giovanile, verrebbe da dire – ma maturerà presto verso grandi traguardi. Di bel rilievo sono comunque anche tutti gli altri bassi, la corda scura che connota l'opera. Marco Spotti è un Pimen ad un tempo ieratico e tenebroso, particolarmente efficace quando evoca le sue visioni nella scena della Sala Granovitaja; ma straordinario è Igor Golovatenko, un Rangoni di fortissimo impatto nel breve, folgorante cammeo del terzo atto. Ancora, si citerà il bel rilievo del Varlaam di Fëdor Kuznetsov, segnatamente nella canzone del primo atto (gli è accanto, in efficace contrapposizione scenica e vocale, l'altro monaco, Misail, qui affidato a Pablo Ortiz Romero), come l'incisivo Nikitic di Alexei Yakimov. A corte, i due figli di Boris, inquadrati dalla ammiccante Nutrice di Kremena Dilcheva, sono Lucia Cirillo, toccante Fëodor en travesti, e Anna Kraynikova, deliziosa nei panni di Ksenija, mentre il temibile ruolo di Šujskij è affidato ad un insinuante Jan Vacik, allusivamente ambiguo nelle terribili scene dell'ultimo atto. L'atto 'polacco' fa affidamento su due presenze di notevole spessore, quella di Mikhail Gubskij, che bene caratterizza l'esaltazione di Grigorij nel fingersi il pretendente Dmitrij; e l'imponente Anna Victorova, che padroneggia con slancio le difficoltà della grande aria di Marina Mnišek. E la galleria degli interpreti non può che chiudersi con una menzione particolare per l'Innocente di Dmitrij Voropaev, cui è affidata la straziante trenodia che suggella l'opera. L'unico, vero bemolle della serata era invece costituito dal nuovo allestimento, coprodotto con il Teatro Municipal di Santiago del Cile, firmato in ogni suo aspetto da Hugo de Ana. Attivo sui più importanti palcoscenici mondiali da oltre un ventennio, il regista argentino si è sempre segnalato per la forza evocativa di un immaginario sempre sfarzoso, cesellato con meticolosa, viscontiana cura del dettaglio. Non è l'idea di partenza ad essere errata: quella di costruire un grande contenitore, un gigantesco carillon rilucente di ori e di pietre preziose, un microcosmo dalle pareti mobili e girevoli in cui lo zar si troverà rinchiuso, fino a diventare ossessivo meccanismo che tutto schiaccia e travolge come l'inarrestabile avanzare degli eventi. E questo giustifica anche la rutilante strategia creativa dei costumi, di una ricchezza da lasciare senza fiato, autentiche 'armature' tali da imprigionare personaggi e sentimenti. L'atto polacco, d'altra parte, opportunamente sfugge a questa logica, per trovare spazio tra i riflessi trasparenti di vetrate che racchiudono un episodio di gusto rinascimentale, con uno splendido gruppo scultoreo al centro della scena, raffigurante una scena di caccia. Ma è la visione d'insieme a latitare, la direzione degli attori, affidata al talento dei singoli, e soprattutto delle masse, costrette in spazi angusti e prive di una reale funzione narrativa: la regia, in una parola, passata in secondo piano rispetto alla costruzione di un apparato scenico efficace, ma non come in altri casi. Una sola idea – ma non è dato sapere chi ne sia l'autore, se il direttore o il regista – è assolutamente geniale: coprire i lunghi, rumorosissimi cambi di scena con i lugubri rintocchi di una campana. Per scandire il tempo effimero della gloria dei singoli e quello, tardo ad estinguersi, delle sofferenze di un popolo.
Giuseppe Montemagno
5/4/2012